16 marzo 1978: la strage di via Fani e il rapimento di un uomo buono

Le Brigate Rosse rapirono lo statista democristiano e lo uccisero dopo 55 giorni

di Vittorio D'Aversa

ROMA - Il rapimento di Aldo Moro fu una catastrofe inenarrabile per l'Italia. Fu una pagina indelebile della nostra storia, aldilà della cronaca, che vide uccisi: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Gli uomini della scorta, gli uomini che proteggevano uno dei massimi esponenti della politica italiana ed europea. Il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.

I Fatti

Ero al Liceo, nonostante vivessimo un clima di paura quotidiana, o forse proprio per questo, in pochi attimi si stravolse la quotidianità scolastica. E non solo. L’agguato avvenne intorno alle 8.50. La cronaca ci tramanda che alle nove su via Fani cala il silenzio. Restano 93 proiettili sull’asfalto e i cinque corpi degli agenti su un tappeto di vetri e frammenti. Non c’era internet, smartphone e social network, la notizia ci mise un po’ di minuti prima di arrivare; almeno fino alla sua conferma esplicita, che determinò il secondo momento inquietante della storia: alle 10.10, da una cabina telefonica, il brigatista Morucci annuncia all’agenzia ANSA del rapimento eseguito dalle Brigate Rosse.

La cronaca politica

Questi i fatti del giorno, in uno scenario e un momento politico probabilmente ben studiato dagli organizzatori: è il giorno del varo del governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti ma ideato proprio da Aldo Moro. Il presidente della Democrazia Cristiana, dalle elezioni politiche del 1976, tesseva una tela con il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, per un Governo democristiano ma sostenuto dall’esterno dai comunisti con il loro voto. C’era fermento nei palazzi istituzionali, si arrivava a un passaggio epocale, anche se incerto: il ‘compromesso storico’.

Il contesto temporale

Era una mattina primaverile, ci fecero uscire da scuola, come se fossimo stati in presenza di un sisma o una catastrofe naturale. Si parlava da subito di “attacco allo Stato”, di pericolo di possibili ulteriori violenze, una sorta di panico, che oggi potremmo definire esagerato, ma solo per via di quella tecnologia a portata di mano di cui ora disponiamo. Quarantacinque anni fa, si andava a scuola con quaderni e libri attaccati con l’elastico (il famoso mollettone); i figli salutavano i genitori, inconsapevoli, sia gli uni che gli altri, di ciò che sarebbe potuto accadere verso la scuola, dentro la scuola e fuori la scuola. Col telefonino sempre in mano e sempre connessi, oggi si vive in virtuale e perenne contatto, allora, si usciva di casa al mattino e quando si rientrava, i nostri genitori tiravano un sospiro di sollievo, e non ce lo facevano neanche notare... E già; i teppisti facinorosi, quelli che oggi imbastardiscono anche le tifoserie sportive, a quei tempi perseguivano degli ideali, ne discutevano, adottavano strategie, di sopraffazione o di difesa. Magari, c’era una minore o meno visibile delinquenza spicciola, ...ma questa è un’altra storia.

Al liceo dovevi essere rosso o nero, saperti schierare e/o stare attento a mantenere una coerenza di equa distanza fra le parti. Come è sempre successo, c’è chi non vede, non sente e non parla, ma chi provava un trasporto “politico” e maturava delle idee, inevitabilmente, non poteva sottrarsi ad avere un ruolo nelle discussioni scolastiche e non solo. Era la generazione del post ’68. Gli ideali davanti a tutto, sovvertire le regole esistenti, ribellione a tutti i costi. Naturalmente, la scuola era il posto più adatto a dar luogo e sfogo alle manifestazioni inneggianti alle varie ideologie.

Verso la scuola

I mezzi pubblici, almeno qui da noi, non hanno mai rappresentato un punto di vanto per la città, ma si era abituati a cimentarsi quotidianamente con ”l’assalto della diligenza”. Ovvero quel modo pericoloso e scomposto di appendersi gli uni con gli altri pur di arrivare in tempo per la campanella. E dopo aver speso energie e una buona dose di adrenalina, ritrovare un cancello chiuso, presidiato dai facinorosi di turno, che ti invitavano in modo più o meno esplicito a cambiare rotta se non volevi invischiarti in situazioni quasi belliche.

Dentro la scuola

Se invece la situazione era apparentemente tranquilla, e si riusciva a varcare la soglia di entrata, c’era da affrontare, in condizioni logistiche, molto spesso precarie, oltre alle materie scolastiche, anche quei dissensi alimentati da ideologie acquisite nei più svariati ambienti che i giovani frequentavano negli orari extrascolastici. E allora, si parlava di nostalgia fascista, di marxismo imperante e di Concilio Vaticano secondo. Un pluralismo che faceva scintille e che, onestamente, pochi professori sapevano governare con la dovuta imparzialità istituzionale. In questo contesto, non era scontato lo sdegno verso l’azione selvaggia delle Brigate Rosse. Eravamo nel pieno degli anni, cosiddetti, di piombo.

Nei giorni seguenti il rapimento di Aldo Moro e per l’intero periodo della sua prigionia, i dibattiti e le assemblee scolastiche erano prassi. Il clima che si viveva già da un po’, diventava sempre più pesante. In classe si leggevano i giornali. Si, ma quali?

Fuori la scuola

Strano ricordarlo, ma c’erano i circoli di Partito, i Centri culturali e le Parrocchie. Tralasciando per un attimo queste ultime, molto spesso i circoli di partito erano fucine di organizzazioni paramilitari. Ricordo tanti compagni di classe, militanti e di fazioni opposte. Mazzieri o costruttori di bottiglie Molotov. Seguire con orgoglio una terzietà rispetto agli estremismi, e soprattutto la non-violenza, comportava un lavoro paziente e a volte pericoloso.

Purtroppo, le guerre si combattono con le armi, e ahinoi! lo vedono anche le nuove generazioni. Squadristi di destra e di sinistra, non erano molto avvezzi ai mollettoni con i libri, bensì li incontravi nei pressi della scuola, ben accessoriati di mazze di legno, spranghe di ferro, catene, tirapugni, coltelli a serramanico e così via...

La paura

A distanza di tanti anni, si scopre nei ricordi, che gli anni ’70, furono vissuti come un periodo di violenze e terrore, che abbiamo forse (deliberatamente) dimenticato e di cui non riusciamo a trasmettere la vera entità ai nostri ragazzi. I giovani di oggi sono fortunatamente esenti da quel clima. Noi, si usciva di casa per andare a scuola o per i più grandi a lavoro, quasi allo sbaraglio. Con qualche gettone telefonico, si riusciva a tranquillizzare chi ti aveva salutato al mattino, e ascoltando la radio era informato di manifestazioni, tafferugli, cariche della Polizia, lacrimogeni, studenti in piazza ... fiato sospeso.

La fine di Aldo Moro

Il prologo e il triste epilogo del rapimento, durato 55 giorni, culmina il 9 maggio con l’esecuzione dello statista democristiano, il cui corpo viene fatto rinvenire in una Renault 4 rossa nella centralissima via Caetani. Dopo oltre quattro decenni di processi, di inchieste e di testimonianze, questo è un pezzo di storia, su cui, ancora oggi, permangono troppi dubbi. C’è chi sa, e non può o non vuole parlare, c’è chi sapeva e ora non può più farlo. Sui libri di storia, i nostri discendenti leggeranno ciò che oggi si vuole tramandare. E forse sarebbe cosa buona e giusta se le nuove generazioni, adesso, potessero ascoltare dai presenti, frammenti di vissuto.

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